Storia di un carrierista messinese tra le fila islamiche, dalla penna di De André alle coste reggine: Scipione Cicala

scipionecicala"È questa la mia storia e te la voglio raccontare, poco prima che la vecchiaia mi pesti nel mortaio e questa è la memoria, la memoria di Cicala ma sui libri di storia Sinán Capudán Pasciá" – Fece cantare così la voce di Scipione Cicala la chitarra poetica di Fabrizio De Andrè, in un dialetto genovese dall'eco marino come il suono di un gabbiano, propriamente adatto al racconto di una storia talattica e piratesca che nasce non in Liguria ma a Messina.

Permane la memoria di Sinàn sia ad Istanbul, in cui si trova la sua residenza nel quartiere Galata, sia nella tradizione popolare reggina, le cui filastrocche senza tempo, ricordano in litanie quel pirata Ottomano che saccheggiava soventemente le coste da Gallico a Reggio negli anni del 1594 – 1595.

Alla vista di quelle "teste fasciate sulla galea" – per citare ancora la canzone di De André –  i calabresi dello Stretto gridavano: "Arrivaru li turchi, a la marina 'ccu Scipioni Cicala e novanta galeri! Na matina di maggiu, Cirò vozzi coraggiu, mentre poi a settembri, toccò a Riggiu. Genti fujiti! Jiti a la muntagna, accussì di li turchi nessuno vi pigghia!".

Scipione Cicala nacque a Messina nel 1552 da una nobile famiglia di visconti e mercanti genovesi al servizio dei Doria ed affaristi nella città peloritana. Come buona parte dei commercianti che solcavano il mare a quel tempo, anche i Cicala, non disdegnarono, di tanto in tanto, le proficue rendite che l'attività del mercenariato garantiva e fu proprio tra le acque del Mediterraneo che il Visconte Cicala e il giovane Scipione furono intercettati, nel 1560, da una flotta Ottomana che lì rese in schiavitù. Dei due, deportati prima a Tripoli e dopo ad Istanbul, soltanto il padre riuscì a riscattare la propria libertà, potendo tornare a Messina dove morì nel 1564; il giovane Scipione, invece, dovette scegliere tra la morte e la conversione all'Islam, con la prospettiva di una carriera tra le fila dei "Giannizzeri", giovani soldati di fede cristiana tratti prigionieri in razzie e guerre, solitamente di origine Slava o Armena, convertiti all'Islam e resi eunuchi, facenti parte della fanteria a guardia personale del sultano Turco.

Inizia da qui la scalata carrierista di Scipione, ribattezzato Cığalazade Yusuf Sinan Paşa , il quale dovette la sua fortuna alle simpatie dei sultani Solimano il Magnifico e Selim II, riuscendo a divenire, sotto Mehmed III, generale delle flotte Ottomane, appunto "Kapudàn Pascià" nel 1591. Sposata una pronipote di Solimano, il suo prestigio crebbe notevolmente e la sua fama di condottiero fu ribadita grazie alla brillante vittoria ottenuta contro i Persiani nella spedizione Ungherese del 1596, ottenendo il titolo di Vizìr, grado politico quasi pari a quello del Sultano.

Tornò immediatamente a Messina, dove volle rivedere la madre Turco – Montenegrina, ma non accontentato dal Viceré di Sicilia, prese d'assedio le coste di Cirò Marina, Soverato e Reggio, devastando la città dello Stretto calabrese e lasciando impotente la flotta Doria intervenuta troppo tardi in soccorso dell'Impero.

Era nei piani di Cicala, del resto, la conquista della Calabria e, come ben furono ricostruite le vicende storiche da un articolo de La Gazzetta Del Sud dell'undici ottobre 2012, tale intento fu auspicato e suggerito, senza poi tradursi in esiti positivi, anche dal filosofo Tommaso Campanella, con il quale il Cicala mantenne una corrispondenza. Nei primi anni del 1600, Scipione Cicala continuò le sue incursioni nel Mediterraneo, specialmente nelle coste balcaniche e, sempre opposto ai Persiani, perì nel 1605 a Dyarbekir. Nulla ricorda a Messina questa controversa figura di un concittadino che il destino ha strappato alla Sicilia, la cui storia arricchisce, senza dubbio, il ricco patrimonio tradizionale che la città può annoverare nel proprio rapporto con i pirati musulmani. 

Francesco Tamburello

di Redazione UniVersoMe

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