Oltre

Quei suoi occhi così neri, neri come la morte, la mia morte.

Come potevo non perdermici dentro? Cercavo me stessa in quell’abisso sperando di trovare una soluzione per non affogare, perché il mio, di abisso, mi aveva già trascinata giù.

Penso a quelle sue mani tanto grandi e calde. Quante volte le ho ritrovate strette alle mie. Quante altre volte l’ho soltanto immaginato. Da piccola mi divertivo a giocare con la fantasia, ora è la fantasia che si prende gioco di me e nulla ha più senso perché la “mia” realtà non è la realtà “degli altri” ed io inizio ad avere paura: mi sento diversa e la storia insegna che il diverso non si ama, si uccide. Forse è per questo che ho deciso di farlo da sola.

Ripenso al suo abbraccio, il mio unico rifugio; e a quelle labbra, così spesso a un alito dalle mie, ma sempre così lontane e irraggiungibili.

Sì, ormai ho deciso: queste sono le ultime ed uniche memorie che porterò con me. Del resto non ho altro. Ho annullato tutto. Ho annullato centinaia di occhi più intensi e sinceri, migliaia di mani più forti e più calde e decine di labbra dal sapore più dolce, per quegli occhi, quelle mani e quelle labbra che erano l’Inferno. Eppure, ho assaporato il Paradiso nel centro esatto dell’Inferno. Era la malattia e l’antidoto ed io ero… no… io non ero più.

BIIBIP: “Rivoglio la vecchia te”. È notte fonda ma il cellulare non va mai a dormire e forse neanche qualche amico. Io ne ho solo uno, anzi una. E lo so per il semplice fatto che mi dà solo certezze e mai dubbi. E anche lei, così come tutti, da un po’ di tempo, ho annullato. Esisto solo io e quegli occhi, quelle mani, quelle labbra.
Com’era la vecchia me? Una sola parola. Bastò una sola parola per mandarmi in quella che il mio simpatico strizzacervelli definisce depressione e DAP, in gergo “Disturbi da Attacchi di Panico”, o come la chiamo semplicemente io “confusione totale”.

BIIBIP: “VIVA”.

Fu allora che realizzai che ero già morta. Tutti lo siamo. Siamo nati per morire. La nostra intera esistenza si sgretola nell’istante di un sospiro e questo mondo non è altro che la nostra tomba che, muta, ci accompagna nell’illusione di una vita che scorre. È un gioco più grande di noi che siamo inesorabilmente destinati a perdere. E non si bara: non esiste fortuna né alcun asso nella manica; la vita non si fa fregare mai!

È stato un attimo. Avete presente quando siete alle prese con uno di quei compiti di matematica impossibili che non sapete da dove partire per calcolare un’integrale in base alla funzione logaritmica data e guardate quelle formule come antichi geroglifici incisi sulle pareti? Vi scervellate e sudate freddo per due intere ore e poi TAC, un attimo prima di consegnare arriva l’illuminazione e vorreste sbattere la testa al muro per non averci pensato prima.
Ecco, la risposta è sempre stata dietro l’angolo, solo che io continuavo a camminare dritto.

Ed eccomi ora, finalmente decisa, finalmente viva, stesa sui binari, che sembrano abbracciarmi –non vogliono lasciarmi andare.

Accade tutto in un istante. Con l’orecchio destro poggiato sul freddo del rame sento un rumore in lontananza, all’inizio è quasi un solletico, poi comincio a vibrare insieme alle rotaie; lo sento avvicinarsi; vedo delle lucine farsi sempre più forti fino quasi ad accecarmi. Mi sembra di osservare la scena dall’esterno, con gli occhi del vento o del cielo.

Il treno passa ed io rimango lì, ferma, a fissarlo seduta sulla sponda opposta dell’altro binario.
Ho fregato la vita, il resto sono solo scuse. Ho fregato la vita, la morte è oltre…

 

Elisa Iacovo

di Redazione UniVersoMe

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