La sentenza

M.C. Escher – Altro mondo

Stando attento a non essere notato, mi  inoltrai all’interno del palazzo che mi era stato indicato da Joseph.
Secondo le sue istruzioni, avrei dovuto salire una rampa di scale evitando di utilizzare l’ascensore, per quale motivo non saprei. All’epoca dei fatti ero giovane e meno interessato ai dettagli di quanto non lo sia adesso. Un uomo chiamato “Pavese” mi avrebbe atteso in cima alle scale per scortarmi al luogo dell’appuntamento. Giunto all’interno del buio androne mi feci coraggio e iniziai a salire le scale, sfiorando il muro con mano tremante, quasi temessi che potesse improvvisamente ferirmi. In cima alla rampa trovai chi cercavo. Un uomo piccolo e forse più giovane di me mi accolse con un sorriso. Senza che avessi il tempo di dire chi ero e chi mi mandava, mi invitò a seguirlo con placida fermezza. All’epoca dei fatti ero giovane, come ho già detto, e quando si è giovani si finisce a volte per pagare lo scotto di possedere più entusiasmo che buonsenso. Camminai scortato dal Pavese lungo corridoi ora stretti, ora larghi. Qualche volta dovemmo chinarci, perché il tetto si faceva basso a tal punto che solo un bambino sarebbe potuto passare tenendosi ritto. Una volta il Pavese si girò sorridente a guardarmi, volendo forse saggiare la mia meraviglia. Ma ciò che ebbe a leggere sul mio volto doveva essere più vicino allo sgomento che alla meraviglia, perché non si girò più. Pensai di averlo offeso, e mi dispiacque. Mentre attraversavamo un corridoio dalle pareti pulsanti, gli chiesi se fosse stato Joseph a informarlo del mio arrivo. Continuò a camminare senza degnarmi di risposta. Allora, Joseph era un uomo importante. Faceva parte della commissione scientifica locale quando l’antitanatina venne scoperta dalla professoressa Yvonne Nettesheim nel 3965. Nel 3992, anno in cui nacqui, la molecola venne introdotta nel mercato. Il prezzo era proibitivo per la quasi totalità della popolazione mondiale. Quando avevo circa vent’anni, il prezzo era sceso a meno della metà rispetto a quello iniziale. Per il mio trentaquattresimo compleanno decisi di acquistare la mia fiala di antitanatina, ormai praticamente alla portata di chiunque. Ricordo ancora distintamente il momento in cui tenni la scatola rossa tra le mani sudate. La mia ragazza di allora mi aiutò a iniettare il prodotto in vena. Lei lo aveva già fatto qualche mese addietro, mi avvertì che avrei provato un senso di calore irradiato al torace, seguito poi da un profondo torpore. Questo non fu vero per me, perché sperimentai invece un senso di euforia durante tutto il processo. Mi addormentai, stremato, alle prime luci del mattino seguente. Ma il mio sonno fu simile a uno stato di dormiveglia allucinato. Al risveglio, non mi sentivo assolutamente riposato. Al tempo non sapevo ancora che sarebbe sempre stato così da allora in avanti.
Il Pavese si muoveva con agile familiarità attraverso i corridoi. Quando fummo giunti innanzi a una porta massiccia, di un colore mai visto prima e tutt’oggi indefinibile, mi disse di attenderlo lì. Non bussò, ma la porta si spalancò ugualmente e lui vi passò attraverso. Ricordo di aver intravisto qualcosa dall’altra parte della porta, ma cosa di preciso non saprei dirlo. Forme geometriche forse, o colori. Durante l’attesa rimasi immobile. Mi ritrovai inspiegabilmente a pensare a mio padre, vecchio amico di Joseph. Pensai alla sua semplicità di “uomo” nella vecchia accezione del termine. Da quando la sterilizzazione obbligatoria di massa impose il divieto assoluto di generare nuova prole, mi sono chiesto spesse volte cosa provassero gli uomini del mondo antico nel concepire una nuova  vita. Non sono mai stato padre, ma sono stato a mio tempo figlio, credo. Chissà cosa doveva provare mio padre. “Certo, si inizia a essere padri” – pensai – “ ma si cessa mai di essere figli?”. Il rumore della porta che si apriva mi strappò ai ricordi e alle riflessioni. Ne uscì lentamente il Pavese, che prese a fissarmi con aria divertita. Stavolta fui io a infastidirmi. Azzardai allora a chiedergli se ciò che cercavo si trovasse al di là della porta, e volli appositamente fissare la porta mentre mi rivolgevo a lui, come per negargli timidamente il ruolo necessario che in realtà ricopriva. Il Pavese non mi rispose, allora mi girai, imbarazzato. Con mia grande sorpresa  era sparito.
Attraversando la porta sentii e vidi tante cose, ma sono certo di non averne compresa appieno neanche mezza. Un uomo, o forse una donna, mi attendeva con la schiena poggiata al muro. Non appena mi vide mi chiese se avessi i soldi, gli risposi di sì. Mentre armeggiava con una valigetta chiese il mio nome, gli risposi che non lo ricordavo più. Estrasse dalla valigetta una fiala dal contenuto lattescente che mi ricordò l’antitanatina acquistata tanto tempo fa. Un po’ intimorito chiesi a quella figura, dalla quale ormai dipendeva il mio destino, entro quanto tempo l’antitanatina sarebbe stata finalmente scacciata via dalle mie vene, ormai ridotte a rigidi tubi macilenti. Mi rispose con una frase enigmatica, che mi fece sorridere; disse: “tra un po’ di tempo fa”.
Compiendo il percorso a ritroso, uscii più velocemente che potei da quel palazzo coi suoi assurdi corridoi.
Stringevo in pugno la fiala che avrebbe finalmente posto rimedio a tutto. Era stato Joseph a fare da intermediario per me, come per altri pochi che potevano permetterselo, forse mosso dall’antica amicizia con mio padre o dai sensi di colpa o ancor più probabilmente dalla sua mostruosa cupidigia. Avevo venduto tutto ciò che possedevo e racimolato i soldi necessari con pazienza, per circa 20 anni. Allontanatomi dall’ingresso del palazzo iniziai ad affrettare il passo, prima che me ne rendessi conto stavo già correndo. Giunto alle baracche che da ormai qualche anno erano diventate dimora mia e di altri giovani sbandati, mi gettai sul duro pavimento, piangendo, felice come mai mi era accaduto di essere in tutto quel tempo. Finalmente stavo per ricongiungermi alla semplicità degli uomini antichi, al tutto, al nulla. Il fracasso dei vetri sfondati e le pesanti mani degli agenti che mi bloccavano a terra distrussero in una manciata di secondi  le mie illusioni. Mi strapparono dalle mani la fiala e mi serrarono ai polsi le manette. Nella caotica scena che mi vedeva attonito e sconfitto, sentii uno degli agenti parlare di una certa soffiata al dipartimento anti-siero da parte di uno spacciatore. Sentii inoltre che insieme a me erano state poste in stato di arresto altre 12 persone, tra le quali un noto e illustre personaggio. Intuii subito che si trattava di Joseph. Da quel giorno mi trovo qui, in attesa della sentenza definitiva.  Io non sono altro che un disgraziato, signor giudice, le parlo con la destra sul cuore. Ho fatto uno sbaglio di cui mi pento, adesso ho capito, ma mostrate la clemenza che si addice a un uomo della sua risma. In fondo, avevo solo seicentotredici anni all’epoca dei fatti, non ero in grado di discernere da dove partono e dove portano i sentimenti. Ho confessato, come ha confessato Joseph, e so che a lui è stata concessa la pena di morte. Abbiate pietà, signor giudice! Abbiate pietà! Ho confessato come Joseph, concedetemi la pena che mi spetta di diritto! ». Il giudice si alza solenne, in silenzio. La corte si aggiorna.

Fabrizio Bella

di Redazione UniVersoMe

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