La sede del New York Times (fonte: open.it)

Polemica per l’editoriale del New York Times contro la “cancel culture”, ritenuto di scarsa “carità interpretativa”

Nonostante tutta la tolleranza e la ragione affermate dalla società moderna, gli americani stanno perdendo il controllo di un diritto fondamentale come cittadini di un paese libero: il diritto di dire ciò che pensano e di esprimere le proprie opinioni in pubblico senza paura di essere infamati o isolati.

Si apre così l’editoriale del New York Times, in un’epoca in cui le informazioni filtrano in modo capillare in tutto il mondo, dove molto spesso si misurano interessi e sensibilità molto diversi tra loro, ma in cui tendono a prevalere e a essere più visibili toni aggressivi o intimidatori e sentimenti di indignazione e intolleranza. Da questo si potrebbe pensare che trova origine il dibattito sulla cosiddetta “cancel culture“, il target principale dell’editoriale, che è stato oggetto di grandi attenzioni e molte critiche.

 

Che cos’è la cancel culture

 

(fonte: ilpuntoquotidiano.it)

Per “cancel culture”, traducibile con “cultura della cancellazione”, si intende oggi quel fenomeno per cui gruppi più o meno organizzati di persone esercitano pressioni su un datore di lavoro, committente, collaboratore o socio perché punisca o interrompa i rapporti con un dipendente o un partner professionale per via di certe cose che ha fatto, detto o scritto. Non è detto che queste pressioni vengano necessariamente esercitate sui social network, ma è molto spesso così.

 

I dettagli dell’editoriale

L’editoriale attribuisce sia alla destra che alla sinistra la responsabilità di aver generato questa situazione di «silenziamento sociale» e «de-pluralizzazione» dell’opinione pubblica. Molte persone a sinistra, secondo il New York Times, ritengono che la cancel culture, sia soltanto un argomento strumentale e vittimistico utilizzato dalle destre, in una sorta di complesso di persecuzione, per difendere l’uso di espressioni di odio e intolleranza nei confronti di ciò che non è conforme ai loro valori. Allo stesso tempo, molte persone a destra che protestano contro la cancel culture appoggiano severe misure conservatrici e di censura, come quella di proibire determinati libri nelle scuole e biblioteche pubbliche limitando la circolazione delle idee ritenute divisive, tra cui quelle che riguardano minoranze etniche e persone LGBTQ+. Su questioni controverse e su cui la società si interroga, secondo il New York Times:

Le persone dovrebbero poter presentare punti di vista, porre domande e commettere errori, e assumere posizioni impopolari ma in buona fede

senza timore di alcuna «cancellazione». Un rischio che, al netto delle divergenze sulla precisa definizione del termine, diversi sondaggi negli Stati Uniti descrivono come una reale percezione sia diffusa: molte persone intervistate affermano, per esempio, di sentirsi meno libere di parlare di politica rispetto a dieci anni fa. Questo, infatti, è un problema per le democrazie secondo l’editoriale: senza un dibattito alimentato da opinioni in contrasto tra loro, espresse senza paura e liberamente, le idee diventano più deboli e fragili. È anche ritenuto significativo, dal New York Times, il fatto che le persone che si dichiarano democratiche e progressiste siano, stando ai risultati del sondaggio, quelle che più spesso delle altre sentono il bisogno di interrompere «discorsi antidemocratici, intolleranti o semplicemente falsi». Eppure, prosegue l’editoriale, «la solida difesa della libertà di parola era un tempo un ideale progressista»: oggi, impegnati nella difesa dei principi di tolleranza, molti progressisti sono invece «diventati intolleranti nei confronti delle persone che non sono d’accordo con loro» o che esprimono opinioni diverse.

Le contestazioni

Secondo un’obiezione molto condivisa nel dibattito, che è stata ripresa e sintetizzata dall’organizzazione americana non profit Press Watch, il New York Times avrebbe frainteso quali siano le minacce reali al diritto fondamentale della libertà di espressione: ovvero quelle del “potere” – e, nello specifico, l’azione del governo – e non le contestazioni da parte di altre persone, benché queste oggi prendano dimensioni che le rendono nei fatti un “potere” a loro volta. Il fondatore e giornalista di Press Watch, Dan Froomkin, ha aggiunto che un conto è la cancel culture e un conto è l’essere ritenuti responsabili di ciò che si dice, e che se davvero il comitato editoriale del New York Times crede «che le persone abbiano un diritto a esprimere le proprie opinioni senza timore di essere screditate», i membri del comitato dovrebbero dimettersi tutti. Anche il giornalista americano Jeff Jarvis, ha accusato duramente il New York Times di farsi portavoce di una forma di vittimismo di destra tipicamente espresso da una classe di maschi bianchi privilegiati, non abituati e infastiditi dall’esercizio del diritto di espressione altrui.

Questo genere di obiezioni, in realtà, non considera una parte importante delle argomentazioni di chi ritiene che la cancel culture sia un fenomeno che esiste e del quale bisognerebbe preoccuparsi. Più che le reazioni di protesta o persino gli insulti, infatti, a essere biasimate e temute sono principalmente le pressioni perché chi è al centro della polemica e delle critiche di turno perda il lavoro, che si tratti di una scrittrice o di un professore universitario o di un regista. O che il timore per questo tipo di conseguenze porti le persone ad auto-censurarsi, impoverendo il livello del dibattito politico, culturale o accademico.

 

Federico Ferrara

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