Fonte: Wired Italia

In Cina esplode la rabbia contro la politica zero Covid. Su Twitter il governo tenta la censura

Durante lo scorso fine settimana, in svariate città della Cina sono andate in scena una serie di proteste contro le restrizioni Covid, causando un’ondata a livello nazionale che non si vedeva dai moti pro-democrazia del 1989. A catalizzare la rabbia pubblica un incendio mortale (10 vittime) a Urumqi, la capitale della regione dello Xinjiang, dopo che molti hanno accusato le restrizioni sanitarie di aver reso impossibili le operazioni di soccorso.

Fonte: Wired Italia

È il culmine dell’insoddisfazione pubblica in costante crescita negli ultimi mesi nel Paese asiatico, uno degli ultimi al mondo ad applicare una rigida politica “zero covid”, che implica confinamenti continui e test molecolari quasi quotidiani della popolazione. Ma le manifestazioni di questo fine settimana hanno anche fatto emergere domande di maggiori libertà politiche, addirittura di dimissioni del presidente Xi Jinping, appena riconfermato alla testa del paese per un terzo mandato.

Slogan di protesta in tutta la Cina

Dopo l’incendio, la protesta scoppia prima sui social poi nelle strade: il 27 novembre una folla di manifestanti, rispondendo ad appelli sui social network, aveva espresso la sua rabbia principalmente a Pechino e Shanghai, prendendo alla sprovvista le forze dell’ordine. Tra gli slogan gridati all’unisono: “Basta test covid, abbiamo fame!”, “Xi Jinping, dimettiti! Pcc (Partito comunista cinese), fatti da parte!”, “No ai confinamenti, vogliamo la libertà”. Lo stesso giorno si sono svolte diverse manifestazioni a Wuhan (dove quasi tre anni fa è stato confermato il primo caso al mondo di Covid-19), a Canton, a Chengdu e a Hong Kong. Nella città meridionale di Hangzhou, due giorni fa le autorità hanno arrestato diverse persone bloccando un raduno sul nascere.

Fonte: Ansa

Nei giorni scorsi sono stati fermati anche alcuni giornalisti: domenica un cronista della Reuters, trattenuto per breve tempo prima di essere rilasciato, quindi Ed Lawrence, della Bbc. Un fatto “scioccante e inaccettabile” ha sottolineato il premier britannico Rishi Sunak. Per questa vicenda, ieri l’ambasciatore cinese a Londra è stato convocato dal Foreign Office. Nel frattempo, le proteste si sono estese anche davanti alle ambasciate cinesi di Londra, Parigi e Tokyo, oltre che alle università negli Stati Uniti e in Europa.

Il rigido controllo delle autorità cinesi sull’informazione e le restrizioni sanitarie sui viaggi all’interno del paese complicano la verifica del numero totale di manifestanti. Ma una sollevazione così estesa è rarissima in Cina, tenendo conto della repressione attiva contro tutte le forme di opposizione al governo: ciò fa credere che la mobilitazione è stata probabilmente la più grande dai disordini pro-democrazia del 1989. Tuttavia, “ci sono alcune differenze” tra le proteste in Cina di questi giorni e i fatti di Tiananmen del giugno 1989, quando le Forze di sicurezza cinesi hanno massacrato migliaia di studenti e cittadini che dall’iconica piazza della capitale chiedevano libertà e democrazia nel Paese. È il commento ad AsiaNews di Wei Jingshou, il “padre della democrazia” del colosso asiatico, attualmente in esilio negli Stati Uniti.

La rivolta dei fogli bianchi

La pagina bianca è diventata un elemento iconico del movimento di protesta, che molti ora chiamano «protesta del foglio bianco» o «protesta A4». Durante le varie manifestazioni, infatti, sono state viste parecchie persone esibire in mano un foglio di carta bianco, simbolo di tutte le cose che in Cina non si possono dire.

In un video virale – risalente a sabato, secondo quanto riferito – un uomo non identificato ha portato via uno di quei fogli di carta dopo che una donna dell’Università di Nanchino lo aveva sollevato. In un altro video di quella notte, dozzine di altri studenti sono state viste nel campus con in mano pezzi di carta bianca, in piedi in silenzio. Scene simili si sono verificate anche in altre grandi città durante il fine settimana.

Basta zero Covid

Il sito della Bbc riporta un prospetto delle conseguenze nefaste che la politica zero Covid portata avanti dal governo cinese ha comportato nell’ultimo anno. Oltre all’incendio di Urumqi sopra menzionato, all’inizio di questo mese, una famiglia di Zhengzhou ha detto che il loro bambino è morto dopo che un’ambulanza è stata ritardata a causa delle restrizioni di Covid. Lo scorso settembre, ai residenti di Chengdu è stato impedito di lasciare le loro case durante un terremoto di magnitudo 6,6 che ha ucciso 65 persone. A ottobre, un padre ha riferito che la figlia di 14 anni ha sviluppato la febbre durante la quarantena nella provincia di Henan ed è morta dopo non aver ricevuto cure adeguate in un centro di quarantena. Durante il lockdown di Shanghai ad aprile, le persone si sono lamentate della mancanza di cibo e delle difficili condizioni in cui versano gli anziani, portati con la forza nei centri di quarantena.

“Le persone hanno raggiunto un punto di saturazione dato che non ci sono direzioni chiare sulla via per porre fine alla politica zero covid”, spiega all’Afp Alfred Wu Muluan, esperto di politica cinese all’Università nazionale di Singapore. “Il partito ha sottovalutato la rabbia della popolazione”, aggiunge.

In foto Mi Feng, portavoce e vice direttore del Dipartimento della comunicazione della Commissione sanitaria nazionale cinese. Fonte: italian.cri.cn

Il portavoce della Commissione sanitaria nazionale Mi Feng ha affermato che i governi dovrebbero “rispondere e risolvere le ragionevoli richieste delle masse” in modo tempestivo. Alla domanda se il governo centrale stia riconsiderando le sue politiche anti-Covid, Mi ha replicato che le autorità “hanno studiato e adattato le misure di contenimento della pandemia per proteggere al massimo l’interesse delle persone e limitare il più possibile l’impatto sulle persone stesse“.
Ma nonostante la replica evasiva di Mi Feng, all’inizio del mese la Cina ha annunciato 20 misure intese a semplificare i controlli sanitari e di prevenzione del Covid-19 e a correggere le “misure politiche eccessive” intraprese dalle autorità locali, sotto le costanti pressioni di Pechino per tenere sotto controllo il numero di casi di infezione nei propri territori.

Una valanga di spam come censura

Le proteste degli ultimi giorni – apertamente antigovernative e schierate contro il presidente Xi Jinping – sono molto insolite in Cina, dove il dissenso viene sistematicamente soppresso. Ed è per questo che, oltre a utilizzare gli agenti per stroncare sul nascere ulteriori manifestazioni, dal 28 novembre la censura delle autorità cinesi lavora per cancellare ogni traccia dell’ondata di proteste dei giorni precedenti: decine di milioni di post sui social sono stati filtrati, mentre lo Stanford Internet Observatory ha notato un aumento di “tweet spam” che mostrano contenuti porno, annunci di escort e giochi d’azzardo e che stanno oscurando la protesta dei cinesi. Secondo l’Osservatorio, oltre il 95% dei tweet contenenti il termine di ricerca “Pechino” provengono da account spam che diffondono questo tipo di informazioni.

Non a caso Twitter è balzata improvvisamente tra le app più scaricate in Cina: in seguito alla censura del governo, molti cittadini hanno usato le Vpn per accedere ai servizi Internet e ai social media come Twitter e Telegram per organizzare le proteste. Ma l’elevato volume di spam rende più difficile trovare informazioni legittime e utili sulle proteste e ha anche un impatto sugli utenti al di fuori della Cina che stanno cercando di ottenere informazioni sul campo riguardo gli eventi. Anche i media hanno sostituito le notizie sul Covid con articoli sui Mondiali e sui risultati delle missioni spaziali della Cina.

Per non parlare dei social network cinesi, dove tutte le informazioni riguardanti le manifestazioni del fine settimana sembrano già essere sparite.
Ad esempio, sulla piattaforma Weibo (una sorta di Twitter cinese) le ricerche “fiume Liangma” e “via Urumqi”, due dei luoghi di protesta del giorno precedente, non davano alcun risultato legato alla mobilitazione. Persino i video che mostravano gli studenti cantare e manifestare in altre città sono scomparsi dalla piattaforma WeChat: sono stati rimpiazzati da messaggi che avvertivano che il post era stata segnalato come contenuto sensibile contrario al regolamento.

A coronare il tutto, la pubblicazione di un articolo sul Quotidiano del popolo – il più diffuso e autorevole giornale della Cina – che mette in guardia contro la “paralisi” e la “stanchezza” di fronte alla politica zero covid, senza tuttavia accennarne un termine. D’altronde, come George Orwell insegna, la parola ha un enorme potere nella delimitazione dei confini del pensiero delle masse.

Gaia Cautela

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