Il biotestamento è legge. Riflessioni di una studentessa di Medicina

180 a favore, 71 contrari e 6 astenuti. Sono stati i voti espressi dal Senato che hanno determinato, giovedì 14 Dicembre 2017, l’approvazione della cosiddetta legge sul testamento biologico, che si intitola propriamente “Norme in materia di consenso informato e dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”.

Accedete alla rete, fate le giuste ricerche, prendete il testo a portata di mano (o smartphone), mettetevi comodi e cominciate a leggere. Sarebbe stato lecito sperare in una redazione precisa e puntuale che potesse evitare, nel futuro, gli interventi del tutto arbitrari della giurisprudenza in merito a fine vita e trattamenti sanitari. Infatti, è quasi diventato un costume- a partire dal caso Englaro fino a quello più recente del piccolo Charlie- che sentenze di merito, Cassazione e Corte Costituzionale sanciscano irrevocabilmente anche contro gli interessi delle parti direttamente coinvolte. E’ quindi quantomeno paradossale che nonostante quest’evidente urgenza, sia venuta fuori una legge poco precisa e anzi addirittura capziosa. Tant’è vero che nel tardo pomeriggio del giorno successivo all’approvazione, lo stesso ministro della Salute Lorenzin ha riconosciuto, rispondendo alla question time posta dall’on. Alessandro Pagano, l’assenza nella legge di una norma che disciplini l’obiezione di coscienza, o che esenti dalle nuove disposizioni gli istituti sanitari non statali.

Aldilà di questo, si tratta di una legge in-emendabile che distrugge anni di deontologia medica configurando uno scenario grave per il futuro.

Si impone una nuova prassi nel rapporto paziente-medico che da oggi si vorrebbe fondato non sul bene dell’ammalato, clinicamente riconoscibile, ma su un consenso che, se non dovesse essere condiviso, da questa legge è trasformato in disposizione, obbligo e sanzione: ovvero dettato del paziente sul medico. Questo è un punto nodale: la dialettizzazione di un rapporto umano tra i più delicati, tra parti ineguali per condizione e per competenza. Uno scontro tra due volontà assunte per definizione come tendenti a fini differenti, quasi che al medico interessi più il proprio “potere sui corpi” che non l’esercizio di un’arte caritativa. Se il contesto immaginato è questo, non si ha scampo: è una lotta. La cosiddetta medicina difensiva e gli aumenti delle quote assicurative per i medici obbligano a considerarlo uno scenario oggettivo.

Ma sarebbe ingenuo ignorare che un altro impeto è presente, ancor più potente e suggestivo. È un’ideologia che oggi opprime e distrugge: l’amore per la morte. La volontà di padroneggiare la vita come mai prima, nobilitando ‒ con l’avallo della legge ‒ l’atto supremo di rinunciarvi quale segno di un potere incondizionato, come il Kirillov di Dostoevskijana memoria. Il marchio della solitudine come affermazione di sé: non più un “io” in relazione con “altri” (medico, famiglia, amici), né tantomeno in relazione con l’unico “Altro”, ma auto-determinazione. Se, con la nascita, si è sfuggiti alla decisione di essere messi nell’esistenza, afferma questo criterio, almeno che ci s’impossessi della decisione di uscirne.

Una visione antropologica tragica, imposta da una classe politica alle strette che per riacquistare qualche consenso interno, in vista delle prossime elezioni, s’improvvisa paladina dei diritti. Peccato che l’autodeterminazione sia una condanna incivile ed un imbroglio. Soprattutto quando si è deboli, quando ha vinto l’idea di dignità come efficienza, quando le risorse sono così risicate da sfiorare l’indigenza, è strumentale nobilitare la morte come soluzione di libertà.

Già nel secolo scorso, il medico che scoprì la trisomia 21, Jérôme Lejeune, intuiva questo rischio:

«Se si volesse eliminare il paziente per sradicare il male, si avrebbe la negazione della medicina. Ma difendere ogni paziente, prendersi cura di ogni uomo, implica che ciascuno di noi debba essere considerato unico e insostituibile».

Penso che dinnanzi ad una vita sofferente piuttosto che dibattere e legiferare sia più utile fare un passo indietro e chiedersi innanzitutto:

Chi è un medico? Chi si vuole che sia? E di conseguenza: come si educa ad essere medico?

Il ddl trasformato in legge ha già risposto: un medico è solo un tecnico che deve eseguire i dettati della Costituzione, dei Tribunali, del Ministero della Salute, della Direzione ospedaliera, del Primario e dell’Utente.

Che tristezza.

Rimane proficuo continuare ad interrogarsi ed approfondire tale tematica; un giorno, magari, potremo tornare ad esercitare il diritto al voto e scegliere chi ci governa. Allora sarà nostra responsabilità trovare “ciò che inferno non è”, oppure ricostruirlo per ripartire.

Ivana Bringheli

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