Dimmi cosa cerchi e ti dirò chi sei. Internet sa tutto di noi e ce lo dice anche, ecco come capirlo

Avete mai avuto la sensazione che il mondo della rete sappia, sempre più precisamente, cosa ci interessa e cosa stiamo cercando esattamente in un determinato momento?
Ebbene sì, è esattamente quello che succede. Non è affatto un caso che aprendo Facebook, ci compaiano, tra le pagine suggerite, quelle relative ad articoli o prodotti che abbiamo recentemente cercato sul nostro dispositivo elettronico, come tablet, pc o più assiduamente con i nostri cellulari. 

Così come accade con i banner pubblicitari che “casualmente” appaiono sui siti che stiamo visitando, propinando offerte e sconti su hotel e case vacanze esattamente nel luogo in cui stiamo programmando di andare o siamo andati di recente.
Stiamo parlando della pubblicità comportamentale, un fenomeno forse poco conosciuto ai più, e che talvolta subiamo più o meno acriticamente, forse ormai troppo assuefatti dal mondo della rete che sembra scandire ogni nostro passo, fornendo la risposta perfetta ad ogni nostra richiesta. Ma se questa risposta non fosse affatto casuale?
Ma facciamo un passo indietro. Cos’è la pubblicità comportamentale? E perché esiste?
Il fenomeno è riassumibile nel concetto che ogni qualvolta visitiamo un sito o facciamo qualcosa online lasciamo una traccia. E questo, più o meno si sa, ma quello che probabilmente è poco risaputo è che queste informazioni vengono acquisite da varie aziende. Ciò di cui bisogna prendere atto, è che le tracce che lasciamo in rete non sono soltanto quelle che lasciamo consapevolmente, registrandoci sui vari social e cliccando “accetta” sui vari consensi e informative sulla privacy – che talvolta non leggiamo, dando un consenso fittizio e poco “informato” – ma l’enorme mole di dati che ci riguarda sono anche carpite indirettamente attraverso le suddette aziende che si occupano appunto di analizzare meticolosamente il nostro comportamento online, quali siti abbiamo visitato, dopo quanto tempo ci siamo tornati, i banner sui quali abbiamo cliccato, i Like che abbiamo dato e molto altro ancora. Il risultato sono miliardi di piccole tracce che possono essere messe insieme e valutate.

Le informazioni sono di solito anonime o fornite in forma aggregata dalle aziende – cosiddette “broker di dati” – per non essere riconducibili a una singola persona, ma considerata la loro varietà e quantità, algoritmi così precisi possono ugualmente far risalire a singole persone e creare profili molto accurati sui loro gusti e su come la pensano. Tanto che queste aziende hanno sviluppato un sistema di “microtargeting comportamentale“, che tradotto significa: pubblicità altamente personalizzata su ogni singola persona. Proprio come fece l’azienda Cambridge Analytica, dalla quale venne l’omonimo scandalo che coinvolse proprio facebook l’anno scorso, in quanto suddetta azienda acquisì, illegittimamente, dei dati provenienti da un’applicazione chiamata “thisisyourdigitallife“, che prevedeva di produrre profili psicologici e di previsione del proprio comportamento, basandosi sulle attività online svolte. Per utilizzarla, gli utenti dovevano fare il Login attraverso Facebook, pratica fra l’altro molto comune nel mondo delle app. Così facendo, l’applicazione violò i termini d’uso di Facebook, in quanto il social network vieta ai proprietari di app di condividere con società terze i dati raccolti sui popri utenti.
Alla luce di ciò, quanti di noi ritengono che i nostri dati personali, che talvolta affidiamo a blande normative sulla privacy, siano davvero protette? Ma la domanda forse più pertinente è “è davvero possibile proteggere i nostri dati una volta immessi nella rete?
Secondo uno studio condotto all’Università di Princeton da Arvind Narayanan, la risposta sembra essere negativa, in quanto la quantità di informazioni su di noi disponibile online sarebbe così vasta da rendere la privacy algoritmicamente impossibile da tutelare.
Queste informazioni, opportunamente rielaborate, vengono poi vendute alle aziende che fanno pubblicità online, in modo che i loro messaggi vadano a colpire solo le persone potenzialmente interessate, risparmiando così un sacco di soldi.
Il pedinamento virtuale, ma dagli effetti molto reali, viene effettuato inserendo nelle pagine web che visitiamo delle stringhe di codice (invisibili) che ci rendono riconoscibili nel passaggio tra una pagina e l’altra e tra un sito e l’altro: sono i cookie, piccoli marcatori software che si installano nel nostro browser quando visitiamo un sito web e che lo rendono identificabile.
Ma prima di creare allarmismi, è necessario precisare, che una qualche forma di antidoto a questo problema esiste. Vi sono appositi siti, come “YouOnlineChoise” i quali permettono non solo di controllare i nostri controllori, ovvero le aziende e l’elenco di chi ci sta osservando in quel preciso istante, ma le aziende che inviano messaggi personalizzati ci forniranno anche ulteriori informazioni su come rifiutare la pubblicità comportamentale. Inoltre, non meno importante è la possibilità di familiarizzare con le impostazioni sulla privacy del nostro browser, controllando il menù delle Opzioni.
Ma se questo non dovesse bastare, e la paura di rendere accessibili i vostri dati sensibili si facesse troppa, esistono anche appositi siti per effettuare veri e propri “suicidi social“, come web 2.0 suicide machine che in soli 52 minuti promette di cancellare ogni traccia di noi dai social network.

Giusi Villa

di Redazione Attualità

Rubrica di long form journalism; approfondimento a portata di studente sulle questioni sociali, politiche ed economiche dall’Italia e dal mondo.

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