Io, pacifista in trincea: viaggio nella mente di un soldato italoamericano

Nell’approcciarmi al libro Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande guerra (Donzelli Editore, 2019) ho avuto le stesse perplessità che molti nutrono nei confronti della letteratura storiografica: spesso i lettori sono preoccupati di trovare una sorta di lezione, un’insieme di nozioni magari trascurate nel corso degli studi scolastici.

Niente di tutto ciò: l’autobiografia dell’italoamericano Vincenzo D’Aquila (Palermo 1892- New York 1975) si presenta come un vero e proprio viaggio nella mente – come vedremo – “instabile” di un volontario che, dalla lontana America, decide di arruolarsi nella speranza di servire la sua terra natia, per poi accorgersi che non sempre le idee corrispondono alla realtà dei fatti. Ed è proprio questo scontro che ci trasporta negli anni della Grande Guerra, grazie all’interesse del curatore messinese Claudio Staiti (dottore di ricerca in Scienze Storiche, Archeologiche e Filologiche presso l’UniMe) nel riportare alla luce Bodyguard Unseen. A True Autobiography (1931), tradotto ed arricchito di puntuali note ed appendice documentaria.

Copertina dell’autobiografia originale (1931)

Alla prefazione dello storico dell’emigrazione Emilio Franzina, che consiglio di leggere anche ai non addetti ai lavori, segue un’introduzione di Staiti, che in gergo potremmo definire un quasispoiler. Ma, in realtà, ci prepara ad affrontare un racconto crudo, convincente, ad ampi tratti misticheggiante, se vogliamo anche teatrale, che per troppo tempo è rimasto, con rare eccezioni, nell’oblio della letteratura del primo dopoguerra. Quegli anni hanno visto nascere capolavori come Niente di nuovo sul fronte occidentale (Remarque) e Addio alle armi (Hemingway) sicuramente ben presenti nella mente di D’Aquila-scrittore.

Ma la sua autobiografia ne sarà all’altezza?

L’unicità del racconto

Osserviamo progressivamente crollare i presupposti che portarono il protagonista ad offrirsi come volontario: dall’ideale di patriottismo, alla convinzione di un conflitto breve e vittorioso; del concetto stesso di guerra non restano altro che macerie nella mente di chi scrive e di chi legge. D’Aquila, come notiamo dal titolo originale dell’autobiografia, è convinto di essere protetto da una guardia del corpo invisibile, che gli permette di sfuggire dal fronte italo-austriaco senza sparare mai un colpo ad anima viva e senza essere – allo stesso tempo – perseguito come disertore.

La sua «chimerica promessa» di non uccidere, racchiude il manifesto di un uomo che da soldato diventa obiettore di coscienza e decide di «raccontare la verità». Se credere o meno alle bizzarre vicende e coincidenze della sua esperienza, nei punti in cui la ricostruzione storica – seppur puntuale – è impossibile, sta a noi: ma, di certo, il messaggio arriva chiaro alle coscienze dei lettori e lo stile personale rende avvincente la narrazione.

Ritratto di Vincenzo D’Aquila tratto dall’autobiografia originale

La sua “conversione” è intrisa di un linguaggio fortemente religioso, che si intreccia spesso con idee deliranti (per le quali fu internato in due ospedali psichiatrici): ma, del resto, si può dire che un profeta – come lui stesso si definisce – di pace fosse un vero matto? Non lo sono forse i generali ipocriti, di cui parla, che mandando i soldati a morire per un vuoto nazionalismo (e non dunque patriottismo) mentre sorseggiano comodamente uno sherry dall’alto della loro comoda posizione?

Questi sono i dubbi e le contraddizioni che si insinuano nella mente del lettore e che il protagonista risolve con continui riferimenti al cristianesimo, i quali supportano le sue azioni e comportamenti da predestinato. Ma il processo di rinascita non è né semplice né scontato. Né possiamo affermare che la vicenda non abbia degli aspetti di tipo psichiatrico: tuttavia fa riflettere come, anche dopo essere stato dichiarato ufficialmente sano, D’Aquila affermi di continuare ad avere le stesse “idee deliranti e assurde” che lo avevano reso “pericoloso per sé e per gli altri”. Forse, ironia della sorte, anche per questo non fu mai richiamato al fronte, dopo vari permessi: avrebbe potuto contagiare con le sue idee di pace gli altri commilitoni, minando la stabilità di una guerra che di stabile aveva molto poco; a tal punto che anche la notizia di una vittoria tedesca sarebbe stata accolta come una buona notizia (da lui e suoi compagni stessi), purché ponesse fine al conflitto.

Scena tratta dalla docufiction “14-Diaries of the Great War” ©, che descrive 14 storie di guerra: tra queste troviamo anche l’esperienza di Vincenzo D’Aquila.

Sicilia e guerra

Sebbene tornare nella sua città natale fosse uno dei motivi che lo spinsero ad arruolarsi, D’Aquila pone nettamente in contrapposizione la bellezza dei paesaggi rurali siciliani alla devastazione della guerra, la purezza contadina all’ipocrisia di chi la guerra l’ha voluta. Nel suo viaggio attraverso l’Italia passa anche dalla nostra città: trova una Messina ancora segnata dal terremoto del 1908, che «si stava ricostruendo senza fretta, o […] con massima cura» e che ricorda più per l’ottimo pranzo a base di pesce, rispetto alla sua bellezza cadente. Viene anche esaltato l’esemplare “modello di pace” palermitano, città nella quale da sempre convivono pacificamente musulmani, ebrei e cristiani. Troviamo l’intima connessione con la sicilianità anche nell’intento del curatore di radunare lettere, memorie e diari di siciliani durante la Grande Guerra (oggetto, questo, della sua tesi di dottorato) per descriverla da un punto di vista a noi caro, nonché, storiograficamente parlando, interessante.

Fonte: Reparto fotocinematografico dell’Esercito -Postazioni in trincea, (Museo Centrale del Risorgimento – Roma)

L’attualità del racconto

Mentre il falso mito della guerra nobile ed efficiente si sgretola, D’Aquila lascia il suo testamento spirituale: mette in guardia su alcuni piantagrane che da lì a poco – come puntualmente accadde – avrebbero potuto dare adito ad un nuovo conflitto (velato, ma non troppo, riferimento a Mussolini a detta dello stesso curatore) e risveglia la coscienza dei credenti, che purtroppo hanno avallato, così come gran parte delle gerarchie ecclesiastiche, le giustificazioni alla carneficina in corso.

Se nel libro leggiamo che “essere folle paga”, altrettanto non possiamo dire della scelta di pubblicare l’autobiografia, presto dimenticata dal pubblico: a Staiti il grande merito di cogliere l’opportunità, in occasione di un periodo di studio per il dottorato negli USA, di riproporre una testimonianza di un uomo e della sua discesa negli inferi di una folle guerra, che, oltre a spegnere tantissime vite, ha reso “folli” tanti soldati che forse – almeno alcuni – folli non erano.

Persino i pazzi speravano di leggere presto della fine della guerra, così da poter tornare ad essere normali

La guerra è rappresentata come il più grande fallimento della civiltà: D’Aquila vuole riportare l’umanità in un «mondo folle» , rigorosamente con mezzi pacifici. Dare nuova linfa vitale all’opera dell’italoamericano è il compito che si è proposto Staiti, assolto alla perfezione e con meticolosa precisione, contribuendo ad aggiungere un ulteriore tassello al concetto di pace. Non possiamo ignorare le troppe guerre che ancora oggi avvelenano la nostra terra, né i sempre più incalzanti “nuovi nazionalismi” che si affacciano all’orizzonte geopolitico odierno. E Io, pacifista in trincea risveglia in noi il desiderio di «camminare allo scoperto, come se il mondo fosse in pace».

Emanuele Chiara

Per approfondire:

Saggio “L’«odissea di guerra e pazzia» di Vincenzo D’Aquila. Un pacifista in trincea”, Claudio Staiti

Estratto della docufiction “14-Diaries of the Great War”, realizzato da Claudio Staiti

Sito web della docufiction 

Pagina Facebook del libro “Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande guerra”

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