Radici di cemento

Aveva solo un braccio davanti, una mano da studiare attraverso il percorso sbiadito di vene ancora coperte.

La sua stanza si trovava al centro esatto di Torino, dal suo edificio si diramavano vie sempre piene, case ornate di urla, camere dove i sogni si accatastavano.
Il sole stava per scomparire, ma teneva la luce spenta. Le sue mani divenivano meno nitide e stavano già iniziando a mischiarsi all’oscurità. Quanto era grande in quel momento il letto su cui sopravviveva, simile a un gomitolo inanimato.
Si assopì, ma dentro aveva un ammasso che proiettava nella mente dormiente mostri neri. Si svegliava a occhi chiusi e senza respiro. Così per un paio di volte fin quando non arrivava l’ora di avviarsi verso il luogo di lavoro.
Accarezzò un cane solitario che ormai era diventato suo amico. Ogni giorno si salutavano e pareva che ciò, in qualche modo, li legasse.
Finita la giornata lavorativa si rese conto di non aver fatto abbastanza. La sua trasformazione in macchina non riusciva ad avvenire, la pelle era ancora troppo morbida e fragile. Dentro aveva qualcosa che da sempre cercavano di strappare. Parlavano di una certa sensibilità, ma chi era questa presenza, questa intrusa, che non permetteva di spegnersi e lavorare? L’avrebbe soppressa con piacere, ma non riusciva mai a staccarsela di dosso. Ucciderla significava suicidarsi.

Adesso camminava con gli occhi rivolti verso il basso, mentre ripensava a ciò che non aveva saputo fare. D’improvviso sentì un colpo alla gola e si ritrovò ad essere un tutt’uno con le strisce pedonali che stava attraversando. Si fermò non riuscendo più a comandare le gambe.
Poi vide il nero dell’asfalto lasciare la strada e risalire dai piedi, scalare le gambe fino allo stomaco. Sentì un forte dolore che partiva dalle caviglie e guardando in giù si accorse con orrore che la sua pelle si stava spaccando. La pece nera squartava persino i muscoli e si infilava con prepotenza. Il sangue scivolava su ciò che rimaneva della sua epidermide e scendeva a bagnare la terra.
Era difficile quantificare il dolore che stava provando. Avrebbe voluto allungare le mani e chiudere quegli squarci, ma non riusciva a muoversi, a stento spostava gli occhi per fargli avere una panoramica di quello spettacolo raccapricciante.
Dalle mani, poi, iniziò ad assorbire il fumo dell’aria e, quando le persone iniziarono a intimare di spostarsi con vari insulti, aspirò anche le loro parole e se le chiuse nel petto. Chissà se si erano accorti di come anche la loro oscurità si era riversata come un fiume di fango al suo interno. In ogni caso non lo diedero a vedere. Urlarono e, poi, si sentirono meglio. Presi di premure e ansie attesero che se ne andasse per tornare di corsa alle loro abitazioni o a lavoro alla ricerca di qualcun altro cui buttarsi addosso.

Tornò a casa e quel nerume, che prima circolava lungo il corpo, si rintanò nel cervello. Lì girava viscido e vomitevole.
Eventi di questo tipo erano del tutto nuovi, ma non rimasero tali per molto. Iniziarono a susseguirsi in modo periodico, senza preavviso.
La sua vita aveva subito un grosso cambiamento, ma col tempo iniziava ad abituarsi a quella nuova routine fin quando non avvenne, nuovamente, qualcosa di inaspettato.

In uno dei suoi giorni liberi decise di fare una passeggiata. Si ritrovò in una campagna verde ed estesa. Il manto di piante copriva una terra viva, piena di insetti e microsistemi.
Il sole rendeva il colore di quella rigogliosa natura brillante e riscaldava tutto, senza bruciarlo. Più in fondo un ruscello violento correva e a ogni sconto con i sassi che lo percorrevano le sue acque saltavano e si dividevano.
Mentre si guardava intorno finì ad osservare le sue mani da dove un fumo nero usciva propagandosi come nebbia.
Un desiderio si fece strada nella sua mente, la voglia di spaccare la sua stessa pelle ed abbracciare, infine, la libertà. La brama di smettere di essere non era più accompagnata dalla paura della fine. Adesso opporsi era impensabile.
Si accasciò con fiumi di una sostanza verde che dipartivano dai suoi occhi. La sentiva uscire come lacrime e mentre un sorriso disperato si allargava sul suo volto stravolto l’euforia gli scorreva dentro.
Strappò tutto, qualsiasi bacio fosse stato depositato sulla sua pelle, ogni carezza e schiaffo. Dai suoi polsi uscì uno spruzzo della stessa sostanza, le gambe erano ormai completamente dilaniate. Non vi era più nulla di umano in quella creatura che si contorceva, il cui volto e corpo erano completamente coperti di quella sostanza indefinita che si muoveva scorrendo. Avvolse la carne da cui in origine era uscita, si insinuò nelle narici e nella gola; coprì i capelli e si diramò in foglie che pendevano verso il basso. Quello che prima era un corpo divenne un tronco, i suoi piedi scesero a scavare la terra alla ricerca di acqua, una chioma copriva tutto.

Da allora quella collina venne abitata da una nuova presenza. Era nata dal dolore, ma adesso donava ombra nelle calde giornate estive ed era il rifugio di chi stanco fuggiva dalla vita.
Ogni giorno un cane veniva a far visita a quella pianta e, l’uno accanto all’altro, riposavano per sempre.

Alessia Sturniolo

*immagine in evidenza: illustrazione di marco castiglia

di Rubrica Inchiostro

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