Cervelli in ansia: dalle neuroscienze nuovi dati per comprenderne il meccanismo

Sto in ansia. Quante volte, nella vita di tutti i giorni, avremo usato questo termine per riferirci a tante piccole quotidiane situazioni di stress psichico e nervosismo? Eppure forse non tutti sanno che, accanto a queste situazioni assolutamente fisiologiche, esiste una ansia patologica, con sintomi che spesso possono essere altamente invalidanti. In psichiatria si distinguono diversi disturbi d’ansia, diversi fra loro ma accomunati da una sintomatologia basata su componenti somatiche (sudorazione, pallore cutaneo, aumento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca e altri segni e sintomi correlati a una attivazione abnorme del sistema nervoso simpatico), cognitive-emotive (senso di pericolo e di allerta, calo della concentrazione) e comportamentali (atteggiamenti di fuga) che possono seriamente compromettere la vita relazionale del paziente.

In particolare, fra i vari disturbi d’ansia, il più elusivo da comprendere è il disturbo d’ansia generalizzato (GAD, generalized anxiety disease) in cui la sintomatologia ansiosa non è collegata a un oggetto o una situazione particolare (come ad es. nelle fobie) ma si verifica in maniera aspecifica, appunto generalizzata.

Da anni la ricerca scientifica cerca di comprendere perché e in che modo, con quale meccanismo, si verifichino questi sintomi. Diversi autori concordano sul fatto che alla base del GAD possa esserci una ipergeneralizzazione degli stimoli di pericolo: normalmente, la nostra esperienza ci permette di associare determinati stimoli sensoriali (per esempio, la vista di un serpente per terra o il suono di una sirena d’allarme) a una situazione di pericolo dando origine a una risposta adeguata, di tipo “combatti o fuggi” (cioè mediata dal sistema nervoso simpatico) non appena gli stimoli vengono percepiti; nel GAD una generalizzazione eccessiva fa si che vengano percepiti come potenzialmente pericolosi anche stimoli che normalmente non lo sono e questo spiegherebbe le manifestazioni della patologia.

Una delle domande dei ricercatori in proposito è se questa generalizzazione sia legata a un meccanismo cognitivo, cioè in parole povere all’incapacità di decidere quali stimoli sono pericolosi e quali no, oppure derivi da un problema percettivo, cioè legato a una anormale percezione sensoriale degli stimoli stessi. Un recentissimo lavoro in pubblicazione su Current Biology, curato da ricercatori del Weizmann Institute e del Jerusalem Mental Health Center*, propone una possibile risposta a questa domanda.

Lavorando su un gruppo di 25 pazienti di GAD e 16 controlli sani, i ricercatori hanno fatto ascoltare ai soggetti suoni di diverse frequenze, associandoli a situazioni di rischio (guadagno o perdita di denaro): dopo questo condizionamento, hanno fatto riascoltare i suoni ai soggetti chiedendo di riconoscere quelli associati al rischio, riscontrando che i pazienti di GAD tendono più dei soggetti sani ad associare al pericolo i suoni anche quando le frequenze risultano essere più distanti da quelle con cui è avvenuto il condizionamento. In un secondo luogo è stata svolta una indagine con risonanza magnetica funzionale (fMRI), una tecnica che si usa per studiare l’attivazione di aree del cervello mediante la misura delle variazioni nel loro utilizzo di sangue ossigenato, rilevate tramite MRI. Tale metodologia, in uso da anni nel mondo delle neuroscienze, ha consentito di osservare, soltanto nei soggetti ansiosi e durante il condizionamento, l’attivazione di un ben preciso network neuronale composto da aree corticali e sottocorticali (come amigdala, putamen, corteccia cingolata anteriore) correlata direttamente alla percezione del rischio e del tipo di rischio. Pertanto, pur senza negare l’importanza dei meccanismi cognitivi nello sviluppo del disturbo d’ansia generalizzato, i ricercatori concludono evidenziandone l’aspetto di disturbo principalmente percettivo. Una tale scoperta, oltre a costituire un importante passo avanti nella comprensione dei meccanismi alla base del disturbo d’ansia generalizzato, contribuisce anche, insieme a tantissimi altri lavori simili, a mettere in una nuova luce l’affascinante problema delle relazioni fra la nostra mente e il nostro cervello, e fra la nostra mente e il nostro corpo. Ma questa, naturalmente, è tutta una altra storia…

*Laufer et al., Behavioral and Neural Mechanisms of Overgeneralization in Anxiety, Current Biology (2016)Qui l’articolo 

Gianpaolo Basile

di Redazione UniVersoMe

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