Intervista a un giovane direttore d’orchestra messinese: Marco Alibrando

Molto spesso la nostra rubrica, in particolare la sezione Personaggi, si è occupata di descrivere personalità importanti del passato che hanno dato lustro alla nostra città. Oggi abbiamo deciso di dare uno sguardo al presente e al futuro: Marco, 32 anni, nato a Messina e direttore d’orchestra, quest’anno ha diretto il tradizionale Concerto di Capodanno al Teatro Vittorio Emanuele e ci ha raccontato la sua storia. Dalla formazione al Conservatorio Arcangelo Corelli della nostra città con diploma in pianoforte, all’esperienza nella città di Milano, dove attualmente risiede, che gli ha permesso di diplomarsi in composizione e diventare direttore d’orchestra. Possibilità che purtroppo – almeno ad oggi – Messina non offre.

Andiamo quindi a ripercorrere i tanti spunti e le riflessioni che Marco ci ha dato durante la piacevole mattinata trascorsa insieme, dall’alto della sua giovane – ma già di livello internazionale – carriera.

Marco Alibrando – Fonte: Operaclick; Autore: Giovanni Puliafito

Sicuramente il direttore d’orchestra è il ruolo più affascinante all’interno dell’orchestra stessa. Sapresti dirci, in parole semplici, quali sono i suoi compiti?

Innanzitutto secondo me è la figura più affascinante perché chi lo vede non capisce esattamente a cosa serva. Il pubblico vede una persona che si muove, altre 60-100 persone che suonano, a volte sembra che [i musicisti, n.d.r.] nemmeno lo guardino. In realtà, il 90% del lavoro del direttore è nelle prove, che il pubblico giustamente non vede. Dal punto di vista tecnico io sono quello che dà il tempo, fa in modo che tutti suonino con lo stesso tempo: in un concerto molto grande chi suona in fondo spesso non sente il musicista più distante, dunque serve banalmente un riferimento metronomico. A livello più profondo, il direttore d’orchestra è il tramite tra ciò che voleva il compositore e la realizzazione. Ogni musicista ha la sua parte, io ho la partitura con le parti di tutti, che devo interpretare in giorni, mesi o talvolta anni di studio. Alla fine devo motivare, “convincere” l’orchestra a suonare secondo la mia idea interpretativa, non in modo dittatoriale chiaramente. Faccio sempre il paragone tra direttore d’orchestra e fonico: è come se avessi una grande consolle e dovessi regolare il livello di suono di ogni strumento.

Mi piace la metafora che hai usato, è molto chiara. Da qui nasce la mia seconda domanda. Probabilmente il direttore ha il compito più arduo, senza nulla togliere ai singoli musicisti: senti mai questa responsabilità? Sei mai ansioso?

Dipende. Come tutti i mestieri, se decidi di farlo significa che ti senti a tuo agio. Quando si fanno poche prove a volte mi capita di essere ansioso. C’è sempre quell’adrenalina giusta prima di salire sul palco: dopo avere stretto la mano al primo violino, una prassi, come un galateo musicale, scompare tutto e mi godo il concerto. L’orchestra è come una società perfetta: c’è una gerarchia ma ognuno ha il suo compito e la sua importanza. Per inciso: la bacchetta da sola non suona.

Marco Alibrando dirige la “Nona Sinonia” di Beethoven al teatro Cilea (Reggio Calabria, 2019) – Fonte: artinmovimento.com

Quale è stata l’esperienza più emozionante che hai vissuto durante la tua carriera?

Me ne vengono in mente due, ma ce ne sarebbero tante altre. Sicuramente il debutto come direttore d’opera, a 25 anni nel festival “Rossini in Wildbad”, in Germania. Lavoravo a questo festival come pianista, il direttore artistico mi ha notato mentre dirigevo una prova con una cantante lirica: mi ha offerto così la direzione di un’opera lirica per l’anno successivo. L’opera lirica è un altro mondo, ci sono una serie di difficoltà, non ci sono soltanto strumenti ma anche cantanti. Una sfida che ho accettato volentieri. Un’altra esperienza bellissima è stata nel 2015 a Milano, con l’orchestra Verdi. Abbiamo fatto un’opera di Bartok, “Il Castello di Barbablù”: una versione con orchestra, cantanti ma non con una scenografia, con un film muto in sincrono girato appositamente per questa musica, da un regista siciliano mio coetaneo, Gian Maria Sortino.

Insomma, avete unito più generi artistici.

Esatto, è un’opera molto complicata, in ungherese, sarebbe potuta risultare più “ostica”: invece abbiamo unito gli amanti della lirica a quelli del cinema, abbiamo avuto un pubblico misto che si è appassionato anche all’altra disciplina. Questa rappresentazione era in programma anche a Messina, ma poi purtroppo è saltata per problemi di fondi.

Spero che riusciate a riproporla in futuro anche nella nostra città. C’è un compositore al quale sei più legato?

È sicuramente una scelta difficile, ma se ne dovessi sceglierne uno direi Rossini, il compositore che ho studiato di più  Ho anche un collegamento affettivo: mia nonna materna era di Pesaro, così come Rossini. Lei mi cantava sempre quando ero piccolo le sue opere, quindi quando poi mi sono ritrovato a dirigere al festival “Rossini in Wildbad” e al “Rossini Opera Festival” di Pesaro è stato come un sogno che diventa realtà. 

Quindi dietro questa scelta c’è molto più di un gusto musicale.

Sono state delle cose che mi sono accadute per caso, mi piace credere che ci fosse un filo conduttore, una sorta di destino.

Teatro Rossini (Pesaro), sede storica del “Rossini Opera Festival”

Come ti sei appassionato alla musica?

I primi ricordi sono legati a casa e a mio padre che strimpellava la chitarra, mi cantava per farmi addormentare quando ero piccolo la canzone di Gino Paoli “La gatta”. Mi piaceva anche giocare con le pianole, poi però è accaduta una cosa strana, devo ancora chiedere se è stato mio padre a combinarla. Abbiamo incontrato al supermercato un suo paziente, maestro della banda dell’esercito a Messina, ormai in pensione. Avevo circa 10 anni, mi chiese se volessi studiare chitarra o pianoforte. Io risposi pianoforte e iniziai a prendere lezioni da lui, quasi per gioco, non l’avevo presa molto seriamente. Poi ho ascoltato la “ballata n.1” di Chopin e mi sono detto“questo è quello che voglio fare”, avevo 14 anni. A 15 sono entrato in conservatorio.

Cosa ti senti di dire a un giovane che vuole diventare direttore d’orchestra?

Bella domanda. Prima di tutto, oltre alla parte accademica, ovvero lo studio di uno strumento e di composizione, di avere tantissima curiosità. Ascoltare un repertorio più ampio possibile, anche generi diversi dalla musica classica. È passato il periodo in cui la mia categoria era molto bacchettona e pensava che “la musica è solo quella classica”. Rock, jazz ma anche musica leggera e contemporanea influenzano l’opera oggi. Poi di fare molte esperienze all’estero, avendone la possibilità. Messina è un’ottima città per iniziare gli studi, c’è un ottimo conservatorio, ma il mestiere del musicista non ha patrie, impone esperienze di questo tipo. La musica è un linguaggio universale, se domani vado a dirigere in Giappone mi capiscono grazie ai gesti, anche se non parlo. Inoltre in tutto il mondo sono in uso delle terminologie italiane, di fatto abbiamo inventato noi l’opera lirica. Il musicista italiano nel mondo non si trova mai spiazzato.

Fonte: Eco del Sud

Torni con piacere a dirigere a Messina? Come è andato il concerto di Capodanno?

Il teatro di Messina  è stato un teatro che mi ha dato tantissime opportunità e tantissimo spazio, tra l’altro ho lavorato con musicisti che conoscevo già e con i quali avevo molta confidenza. Tornare è bello perché ho fatto tanta esperienza con loro e più si è abituati lavorare ripetutamente con un’orchestra, più il risultato finale è migliore. Parenti e amici vengono agli spettacoli, quindi forse sono più ansioso quando dirigo a Messina, perché so che avrò tante persone che saranno sincere e crudeli nei giudizi.

Cosa cambieresti di questa città?

[Ride n.d.r.] Quanto tempo ho? E quante pagine hai, soprattutto.

In genere mi mantengo sulle 1000 parole massimo, ma per questa domanda facciamo un’eccezione.

È difficile scegliere poche cose. Ma non sono uno di quei messinesi che se ne va e critica Messina, perché è facile andare fuori e poi fare paragoni. Se restiamo nel mio ambito, cambierei il fatto che non c’è un’orchestra stabile. Nasce nel 1994 ma non è diventato per i musicisti un posto di lavoro fisso. Non mi riferisco al punto di vista economico, ma parlo da musicista. Un’orchestra è qualcosa che si costruisce negli anni, non è un lavoro che puoi fare un giorno sì e un giorno no. Per arrivare a un livello alto ci vogliono almeno 10 anni di lavoro costante. Quindi per me quello che manca a Messina è la continuità dal punto di vista musicale, anche perché la città ha una grandissima tradizione. Dopo il terremoto il Teatro ha avuto artisti di livello, ma sempre in qualità di ospiti, selezionati con concorsi e audizioni. Adesso c’è meno spazio per la musica, per una questione di costi: per fare un’opera lirica sono necessari 60 musicisti, 40 coristi, 10 cantanti solisti in media. Dietro il palcoscenico c’è un mondo, tra sarti, macchinisti e tecnici.

 

Chiudiamo questa chiacchierata con la speranza che i consigli di Marco non restino inascoltati.

È necessario, in un’epoca nella quale persino le librerie sono costrette a chiudere, non dimenticare l’importanza dell’arte e della cultura, in tutte le sue innumerevoli sfaccettature.

Emanuele Chiara

Immagine in evidenza: messinaweb.eu

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