Quando torneremo alla normalità? È la domanda più gettonata dell’ultimo anno. Ma non solo. È il segno evidente di che cos’è il tempo presente oggi: proiezione nel futuro del ritorno del passato. Eppure, mentre la sogniamo, la normalità ci è già sfuggita di mano. La pandemia, infatti, ha innescato un processo di trasformazioni tanto rapido da necessitare una ridefinizione del concetto di normalità. Scopriamo il velo di Maya: la normalità, così come la conoscevamo, non tornerà mai più. E no, non si tratta dell’osservazione pessimistica di un animo retrivo, piuttosto di un’affermazione di fiducia nella storia e nei suoi eventi: ogni crisi porta con sé non solo distruzione ma anche uno scenario di possibilità.
Non bisogna andar lontano con il pensiero per rendersi conto che le risorse messe in moto dalla pandemia rappresentano un potenziale per il futuro. Guardiamo a quanto ci è più vicino: il sistema universitario. Le lezioni online si sono rivelate, per molti versi, un beneficio a cui le università postpandemiche non possono più rinunciare, nel nome di un accesso alla cultura più libero e democratico. Si pensi ai vantaggi per gli studenti lavoratori che riuscirebbero più agevolmente a conciliare lavoro e università. Stesso discorso vale per gli studenti genitori. Per non parlare poi di quanti, per frequentare la facoltà che prediligono, sono costretti a cambiare città, il che implica dei costi ai quali non tutti possono far fronte, o degli studenti pendolari che in un giorno di pioggia rinunciano alle lezioni. La didattica a distanza consente di superare barriere e disuguaglianze e di pensare davvero ad un’università che dia a tutti le stesse possibilità.
Nel mondo del lavoro, lo smart working ha spalancato nuovi orizzonti: una gestione più autonoma dei tempi di lavoro e dei tempi di vita, la riduzione dei costi di trasporto casa-lavoro e dello stress causato dagli spostamenti, la possibilità di lavorare in un ambiente familiare e costruito a propria misura. Che lo smart working sia un’innovazione destinata ad occupare il futuro postpandemico, lo conferma un’indagine condotta da Rete del lavoro agile, secondo la quale il 95% degli intervistati vorrebbe mantenere la flessibilità garantita dal lavoro in remoto anche dopo l’emergenza. A tal proposito, nelle ultime settimane, molte imprese, come Unicredit, Bayer, Sanofi, Rina, hanno stipulato accordi con i sindacati per regolamentare l’uso di questo importante strumento nel post coronavirus, puntando l’attenzione soprattutto sul diritto alla disconnessione.
Anche il settore sanitario, messo alla prova dalla pandemia, si è aperto ad una nuova frontiera: la telemedicina. Un ottimo strumento per rispondere all’esigenza di ridurre l’afflusso in ospedale, soprattutto per proteggere dal contagio soggetti fragili o con malattie croniche, e che nel futuro postpandemico può rappresentare un importante tassello di un sistema medico più inclusivo e presente nel territorio. La telemedicina faciliterebbe l’accesso alle cure mediche a quanti vivono in zone remote o non dotate di adeguate strutture sanitarie; permetterebbe ad anziani o malati cronici di curarsi direttamente da casa; renderebbe più agevole al paziente il consulto medico; garantirebbe interventi repentini e personalizzati.
Lo smart working, la didattica a distanza e la telemedicina si collocano in uno scenario più ampio: la digitalizzazione. Questo processo, accelerato fortemente dalla pandemia, si dimostra oggi più che mai, contro ogni forma di resistenza, inesorabile e onnipervasivo. In tal senso, il Corona virus rappresenta un punto di non ritorno: se prima le vecchie generazioni guardavano nostalgicamente al passato, oggi anch’ esse si sono rese conto dell’effettivo potenziale insito nel mondo virtuale. La stessa politica si sta ritrovando a fronteggiare una sfida lanciata proprio dalla digitalizzazione: la disuguaglianza digitale. Basta pensare al Recovery fund e al fatto che prevede l’erogazione di 40 miliardi in favore dell’educazione digitale, per comprendere che esiste una nuova consapevolezza: senza un’equa distribuzione degli strumenti digitali, quella per la democratizzazione della cultura, del lavoro e della salute rischia di essere una battaglia persa.
Da una parte l’evoluzione del digitale, dall’altra il progresso della scienza: la pandemia, come fenomeno sociale, non può essere letta se non a partire dal binomio scienza-tecnologia. Le trasformazioni evolutive che hanno investito la scienza riguardano, in modo particolare, due campi. Il primo è quello della ricerca sui vaccini: la tecnica dell’Rna messaggero, usata dai vaccini Pzifer-Biontech e Moderna, verrà utilizzata per sperimentare nuovi vaccini, come quello contro il citomegalovirus e l’HIV. Lo ha confermato Noubarn Afeyan, presidente di Moderna: “Penso che questa tecnologia resterà protagonista anche in futuro”. Il secondo campo è quello del rapporto con le istituzioni: la pandemia ha sancito l’inizio di un fecondo dialogo tra scienza e politica e, di conseguenza, tra scienza e opinione pubblica; un dialogo che deve essere coltivato per costruire società più informate, consapevoli e mai più impreparate ad affrontare crisi di questo tipo.
Immaginare il futuro post Covid alla luce di risorse e possibilità rappresenta il tentativo di ripensare la pandemia come un momento storico epocale, un evento pregnante di schemi interpretativi nuovi per comprendere le trasformazioni del presente e quelle del futuro, nell’ottica di una realtà che si evolve nel lasso di tempo che intercorre tra la rottura di equilibri vecchi e l’affermazione di equilibri nuovi.
Chiara Vita
Articolo pubblicato l’ 8 aprile 2021 sull’inserto NoiMagazine di Gazzetta del Sud