Riflessioni sulle regionali da uno studente di Civiltà letteraria

Ne “La Fattoria degli animali” di George Orwell, dopo la morte del Vecchio Maggiore, maiale eminente che aveva instigato alla rivoluzione contro l’uomo gli animali della fattoria, successe che gli stessi animali:

“Parlavano di senso del dovere verso il signor Jones, che essi chiamavano “Padrone”, e facevano osservazioni elementari come: “Il signor Jones ci dà da mangiare. Se se ne andasse, noi moriremmo di fame”. Altri facevano domande assurde come: “Perché dovremmo preoccuparci di quello che avverrà dopo la nostra morte?”. Oppure: “Se questa Rivoluzione deve in ogni caso avvenire, che importa se noi lavoriamo o no per essa?”.

Questo passo estratto dall’opera di Orwell risale al 1945 ma, settantadue anni dopo, ritengo questo ritratto satirico l’efficace istantanea della conseguenza che ha reso realtà il fenomeno Luigi Genovese, figlio di Francatonio Genovese, ex deputato del Partito Democratico ed ora onorevole di Forza Italia condannato in primo grado ad 11 anni per lo scandalo “Concorsi d’Oro”. Genovese Jr, dunque, va all’Ars con il massimo delle preferenze espresse a Messina, non male per un ventunenne esordiente nel mondo politico, il quale ha chiesto di: “Non essere giudicato per il proprio cognome”. Perché questa realtà è Orwelliana? I risultati di queste elezioni non sono altro che ricorsi storici soliti della politica siciliana: al presentarsi di una rivoluzione popolare, i tradizionalisti fanno quadrato per frenare l’avanzata del malcontento e, questa volta, pur di “arrivare”, si è badato poco alla qualità generale dei prodotti. Nel nostro contesto, il ruolo dei “rivoluzionari”, scongiurando il fazionismo ma cercando l’obiettività d’analisi, era rappresentato dal Movimento Cinque Stelle che, nella volontà di competere senza alleanze alle elezioni regionali, si era proposto anche in Sicilia di “rottamare” la “vecchia politica” proponendo un elemento scelto tra i cittadini. Di contro, la destra ha risposto con una coalizione volta a concorrere contro il prevedibile largo consenso grillino che intercetta i comuni sentimenti di antipolitica e si avvale anche dei voti di protesta al sistema attuale.

Così, a conti fatti, la competizione si è ridotta a due grandi forze, delle quali ha vinto la coalizione che ha portato Nello Musumeci alla presidenza della Regione. Il precedente storico, con i dovuti limiti, ritorna in Sicilia nei primi anni ’20 del 1900 quando, sotto la minaccia della corrente socialista proveniente dalla “fresca” Rivoluzione d’Ottobre avvenuta nel ’17 a Mosca, nell’Isola i capitalisti cattolici, nel bel mezzo del dibattito politico di una riforma agraria, cercarono in tutti i modi di contrastare la diffusione delle casse rurali agrarie socialiste, le quali, in Nord Italia rafforzavano il consenso del movimento proletario. Il caso volle che da Caltagirone l’iniziativa delle casse rurali cattoliche trovò in Luigi Sturzo un riferimento, il quale coordinò le capacità di altri benestanti di fede cattolica che frenarono, insieme, in questo senso, l’avanzata delle casse rurali socialiste siciliane, successo che convinse, qualche anno dopo, il prelato siciliano, a fondare il partito della Democrazia Cristiana, riportando in politica i cattolici che, dal momento dell’Unità d’Italia, erano stati inibiti dalla Chiesa di Roma (la quale non riconosceva lo Stato Italiano Unitario), dalla partecipazione attiva in politica.

La “rivoluzione” popolare, allora, fu contenuta e ci si avviò al fascismo con un allineamento politico conservatore e filocattolico, con qualche focolare socialista che, comunque, nell’insieme, non fu mai una voce efficacemente incisiva. Oggi, questa strategia della destra ha seguito le stesse dinamiche di ottanta anni fa, senza tralasciare il fenomeno che, più o meno, secondo i rumors giornalistici, ha riguardato entrambe le fazioni: con il termine “impresentabili” sono stati etichettati, infatti, molti candidati alle cariche pubbliche regionali e tra questi, inevitabilmente, è finito il giovane Genovese, il quale, seppur abbia pregato l’elettorato di non essere giudicato dal cognome ma dalle proprie idee, paga comunque lo scotto di quello che è, per un politico, il “cursus honorum”, ossia i precedenti.

Cosa si può imputare ad un esordiente assoluto se non un giudizio storico sul percorso politico paterno? Ecco che ritorna, in questo caso, il fenomeno Orwelliano della vicenda: “Parlavano di senso del dovere verso il signor Jones, che essi chiamavano “Padrone”, e facevano osservazioni elementari come: “Il signor Jones ci dà da mangiare. Se se ne andasse, noi moriremmo di fame”. L’anima borbonica di Messina resiste a centocinquantasei anni di distanza dall’Unità Italiana ed i “Patruni e sutta” non sono solo maschere del folklore popolare, ma esistono ancora come ovvia conseguenza del potere esercitato in una città povera di iniziativa economica, nella quale, la circostanza elettorale, risveglia gli animi dei tanti: “Vota Antonio! Vota Antonio!”.

Ma questa realtà è, anche, la conseguenza dei tanti astenuti dal voto, i quali, nell’istantanea Orwelliana, avran detto: “Se questa Rivoluzione deve in ogni caso avvenire, che importa se noi lavoriamo o no per essa?” – liquidando in questo modo il “fastidio” del dovere di scegliere. E’ anche comprensibile il pensiero di chi, in questi candidati, non avrà visto i presupposti adatti per una eventuale “rivoluzione”, ma da queste dinamiche Orwelliane di “Patruni e Sutta” e di “scettici” stravincono gli “Impresentabili”. Qual’è il nodo gordiano della questione? L’anno scorso, nel gennaio del 2016, in Giappone il Ministro dell’Economia Akira Amari si dimette dal proprio incarico per accuse di frode, ritirandosi prima che queste delazioni venissero comprovate. Questione di morale? A Messina, invece, un “impresentabile” ottiene un grande consenso contornato dall’indignazione impotente di chi avrà sicuramente esercitato un voto diverso, di si sarà chiesto dell’utilità della propria partecipazione alla rivoluzione e di chi, probabilmente, in atteggiamento di “super partes” molto discutibile, avrà pensato: “Perché dovremmo preoccuparci di quello che avverrà dopo la nostra morte?” – dubbio che in termini siciliani si traduce in accenti Camillereschi: “Io mi ni staju futtiennu”. Il fenomeno del “giovane assessore”, eletto tra gli “impresentabili” dimostra come esistono a Messina “Patruni” e 17.000 (dato parziale) “sutta”, per colpa dei quali si perpetua il fenomeno gattopardesco della Sicilia per cui: “Se vogliamo che tutto cambi bisogna che tutto rimanga com’è”.

Da quest’altra chiamata all’esercizio della responsabilità, Messina ha dimostrato di essere una città che non ha estinto i suoi vizi “borbonici”, motivo per cui, probabilmente, il “Sole 24 Ore” ha classificato la città dello Stretto all’ottantottesimo posto su 110 capoluoghi italiani per qualità della vita, dato inevitabilmente influenzato anche dalle tendenze sociali della città nelle sue espressioni e nelle sue azioni. Alla luce di queste analisi, se dovesse esistere una classifica basata sui valori morali espressi da ogni capoluogo italiano, la posizione di Messina, visto lo strano caso del vincitore “impresentabile”, occuperebbe senz’altro posizioni più basse nella graduatoria delle dignità, lasciando ai veri giovani speranzosi tanta amarezza e tanta vergogna nelle prospettive del futuro. A tal proposito, si conviene come non può esistere nessuna rivoluzione politica senza una rivoluzione culturale, prospettiva che la volontà messinese espressa in cabina elettorale è stata brutalmente pugnalata alle spalle sul nascere.

Francesco Tamburello

di Redazione UniVersoMe

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