Pietà

Edvard Munch – L’assassino

 

L’estate irrompeva in paese imponendo i propri umori e scacciando la gente verso i vicini borghi montani. Vittorio osservava le strade inondate dal sole attraverso l’ampia vetrata della sua stanza. Ciò che riceveva da quella vista era un impressione che, come ogni anno, lui stesso faticava a decifrare – un misto d’orrore, letizia, tristezza. Vittorio era senza dubbio un uomo pratico, e come tutte le persone pratiche era dotato di scarso senso dell’umorismo; la natura, in cambio, lo aveva in qualche modo risarcito di quella grave mancanza donandogli una robusta intelligenza intuitiva: riusciva a indovinare esattamente e con facilità quale fosse il rimedio adatto a ogni turbamento dell’anima, che si trattasse dell’anima propria o di quella d’altri.  Sapeva dunque che quello specifico sentimento così ricco e ambiguo che andava sperimentando col primo caldo estivo aveva come unico rimedio una visita al bar di Franco.

Insomma, a Vittorio piaceva bere un bicchiere o due, soprattutto nel periodo della “mestizia”, come piaceva erroneamente definirla alla madre di lui.

Franco possedeva un piccolo bar alla periferia del paese. Tra i lecci e profumi di ragazze era piacevole starsene seduti sugli sgabelli malconci la sera – e Franco, se non proprio un amico, era quantomeno un conoscente con cui ci si poteva permettere qualche confidenza. A notte inoltrata, quando anche l’ultima clientela era fuori a godere della propria ebbrezza alla luce dei lampioni, Franco avvicinava Vittorio con un cenno del capo e serviva da bere a entrambi. Vuotato il bicchiere, restava dietro al bancone con un espressione quasi artificiale, e quando finalmente parlava era impossibile capire se fosse serio o scherzasse. Vittorio era affascinato e al contempo inquietato dalla persona di Franco. Era come se le proprie paturnie avessero in quei giorni una forza tale da autoproclamarsi indipendenti dal corpo e dalla volontà di lui, e che avessero corpo proprio, voce propria, volontà propria. Elementi questi che condensavano nella figura di Franco. Parlare a quattr’occhi con lui, con l’impulsività e la stolida fluidità che solo l’alcol è in grado di concedere, era evidentemente per Vittorio una sorta di catarsi in quei periodi.

Una sera accadde qualcosa che non è giusto definire spiacevole. Non importa riportare esattamente il giorno e l’orario. I fatti e la loro realtà sono tutto ciò che conta. Vittorio si trovava su uno degli sgabelli malconci a riflettere pigramente su qualcosa di indefinito, come se nei meandri della sua mente fosse presente un’idea capricciosamente restia a svilupparsi e manifestarsi con completezza. A un tratto la sua attenzione venne richiamata da un movimento sul muretto di fronte: in un forsennato dibattersi di minute zampette una piccola vespa si trovava col ventre pietosamente rivolto al cielo. Un gruppo di formiche si era raccolto attorno alla malcapitata, ed evidentemente si apprestava a consumarne le carni ancora vive e recalcitranti. Vittorio ebbe l’impressione che quell’essere sofferente, la cui impotenza era al contempo pietosa e nauseabonda, implorasse il suo aiuto. Provando una cocente quanto inspiegabile vergogna decise di affrettarsi al bancone. Non ordinò nulla. Pagò il conto, salutando con un cenno Franco. Tornando a casa ebbe l’amara impressione che non sarebbe più tornato in quel bar dagli sgabelli malconci, e che non avrebbe più rivisto né Franco, né le ragazze fresche e disinibite, né lo spettacolo crudele del desinare delle formiche. La notte passò lentamente, in un turbinare di pensieri e immagini di cui Vittorio non ebbe più ricordo al risveglio. Nei giorni seguenti quello che era sempre stato un senso ambiguo di inquietudine ed eccitazione si tramutò in un’angoscia insonne e scivolosa. La logica praticità di cui aveva sempre beneficiato sembrava ormai non trovare più espressione. L’immagine della vespa impotente affollava intrusivamente i suoi pensieri già dal primo mattino senza che vi si potesse trovare valido rimedio. Anche la madre iniziava a notare con profonda apprensione mutamenti nel suo comportamento: non usciva praticamente più di casa, rifiutava il cibo e iniziava ad assumere una strana espressione nel viso pallido, come di chi tace a fatica un gravoso senso di colpa. In realtà albergava nella tormentata mente di Vittorio una viva produttività intellettuale: non potendo più ignorare i pensieri, aveva iniziato a processarli con metodicità e a metabolizzarli poco per volta, come farebbe l’organismo con un veleno potente ma ben diluito. Si faceva in lui sempre più forte la sensazione che quella sera gli fosse stata rivelata una verità superiore, che coinvolgeva profondamente l’intero universo. Iniziò a riflettere a lungo sui modi e i motivi dell’alimentazione, trovando assurdo che un essere dotato di ragione e compassione potesse condividere la medesima brutalità con le dissennate formiche, coinvolgendo nella propria sopravvivenza la sofferenza e la morte d’altre forme di vita. La soluzione si affacciò alla sua mente in modo semplice e spontaneo: se si voleva davvero evitare la sofferenza di altri esseri viventi, bastava non coinvolgerli. Lieto di essersi riconciliato con la sua proverbiale praticità, decise che non avrebbe più consumato carni animali. Iniziò così un periodo di esaltante novità, e non solo dal punto di vista alimentare. Prese ad informarsi sul vegetarianismo e le sue ragioni. Si dedicò avidamente alla lettura di saggi di sociologia e testi mitologici che avevano come oggetto déi antichi e i luoghi da loro concepiti, privi di violenze o affanni. Quando Dio non era ancora appannaggio di un cieco antropocentrismo, la sua esistenza era interpretata alla luce della manifestazione di tutte le forme – viventi e non. Dio padre era cielo, vento, grano, lupo. Questi pensieri rafforzavano le nuove convinzioni di Vittorio. L’appetito (prima di allora in realtà molto scarso a causa di una mancata propensione al buon gusto culinario) era vigoroso e puntuale: riusciva a consumare abbondantissime porzioni di legumi, ortaggi e frutti tre volte al giorno, ingurgitando tutto velocemente e con piacere. La madre era contenta, Vittorio era sempre stato un ragazzo un po’ astenico: da bambino era di salute assai cagionevole e dal temperamento melanconico. Era abituata alla “mestizia” estiva, ma mai come quell’anno lo aveva visto turbato, e il ritorno (o meglio, l’esplosione) dell’appetito bastava a rassicurarla. E poi aveva appreso che Vittorio aveva voglia di uscire e magari passare dal bar di Franco, altro segnale che valutò positivo. Donna semplice e ormai sulla soglia della senilità, aveva vissuto tutta la vita in paese e non avrebbe potuto fare altrimenti. Pur non potendosi rimproverare nulla, covava ormai da tempo nel suo cuore di madre il sordo senso di colpa di chi attende in silenzio il manifestarsi di un dramma latente e inevitabile, senza avere i mezzi per comprendere appieno le delicate dinamiche degli eventi.

Vittorio uscì in tarda serata e decise di godersi ogni metro del viale alberato che conduceva da casa sua alla vicina piazza barocca; poi da lì avrebbe disceso una lunga scalinata in pietra lavica giungendo infine alle case antiche del paese, molte delle quali disabitate. Il bar di Franco si trovava a circa 500 metri in direzione della litoranea, alla periferia sud del paese. Giunto sul posto trovò il locale praticamente vuoto. Solo Franco dietro il bancone e una coppia seduta fuori erano rimasti a rappresentare i superstiti del caldo umido e appiccicoso di quelle sere. Franco lo accolse con la solita espressione cordialmente impersonale, e Vittorio fu lieto di rivederlo; ordinò una media alla spina e si mise a sedere al bancone. Il brusio della coppia all’esterno del locale si mescolava dolcemente al suono aspro del ventilatore posto vicino alla cassa. A un tratto la ragazza rise di gusto, di un riso dolce e vivace che inondò il locale vuoto. Franco aveva smesso di fissare con lo scarso interesse che contraddistingueva ogni sua attività la piccola televisione fissata al muro. Ora guardava Vittorio con una curiosità che non gli si addiceva. O almeno, a Vittorio non piacque quello sguardo. Così prese a raccontare a Franco del suo radicale cambiamento in materia di alimentazione, quasi senza volerlo, come mosso dalla necessità di sviare dal proprio volto l’attenzione muta e indagatrice di Franco. Questi ascoltava con molta attenzione. Quando Vittorio ebbe concluso, Franco si limitò a sorridere e tornò a guardare con blando interesse le immagini che scorrevano sullo schermo. Vittorio provò un fremito di rabbia.

Cosa significava quel sorrisetto? Possibile che Franco non condividesse le sue nuove visioni sul mondo e sull’etica? Del resto era ovvio, come potrebbe comprendere l’importanza di preservare la vita delle altre creature chi si guadagna da vivere avvelenando le membra e le menti di altri uomini. Vittorio lasciò una banconota da 5 euro al bancone e uscì senza salutare. Alle risate della ragazza si aggiunse la voce di un altro, che adesso trascinava rumorosamente una sedia e si univa al tavolo della coppia. Vittorio camminò verso casa affrontando il caldo. L’onta gli arrossava il volto e gli gonfiava le vene alle braccia. L’idea per lui inaccettabile consisteva in una nuova e quanto mai dolorosa presa di coscienza: le sue nuove visioni erano profondamente ipocrite, se non del tutto assurde. Le piante che egli avidamente consumava erano anch’esse forme di vita. Che il riso di Franco stesse a sottolineare proprio questo? Tornato a casa fu colto da un malore. Gettò nella pattumiera ciò che era residuato dalla cena e si mise a letto. Il giorno dopo avrebbe iniziato a cibarsi di sola frutta. Anzi, non avrebbe consumato neanche quella, visto che in essa era il seme di una nuova vita. Un anno dopo il sole batteva cocente sui muri delle case. La madre di Vittorio si era svegliata da una notte agitata benché priva di sogni. L’estate era tornata e aveva nuovamente trascinato con sé profumi e calore. La donna diede un’occhiata al piccolo orologio che era appartenuto a Vittorio e che adesso lei custodiva gelosamente sul comodino accanto al letto. Si chiese se fosse possibile che alla morte del corpo potesse sopravvivere l’anima, e con lei la mestizia del suo adorato Vittorio. Ricordò l’incarnato chiaro e la dolcezza torva del suo sguardo e la pietà che aveva provato nei confronti dell’universo, ma che adesso non gli veniva ricambiata dai vermi che banchettavano con le sue carni. Si alzò dal letto, erano le 7 del mattino.

Fabrizio Bella

di Redazione UniVersoMe

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