Santi Pietro e Paolo: un monastero basiliano nell’antica valle fluviale d’Agrò

A poco più di 40 km da Messina, nella natura boschiva dei Monti Peloritani, sulla costa Jonica, sorge nella sua solitudine non ancora intaccata, una chiesa di impianto bizantino e arabo-normanno. Quasi senza dare alcun preavviso di sé appare in mezzo al verde, nei pressi di Casalvecchio Siculo, dopo avere percorso un itinerario che si inerpica su strade di campagna. La valle, abbracciata tutto intorno dal torrente Agrò, uno dei corsi d’acqua maggiori della costa, che deve il nome alla parola αγρός, terra coltivata, grazie alla presenza dei campi è stata frequentata dall’uomo fin dai tempi antichi. Ne sono una testimonianza i ritrovamenti risalenti al neolitico, ma nei secoli molti altri popoli tra cui fenici, greci, bizantini e arabi hanno coltivato e abitato le terre fertili attorno alle sue acque, disseminando nel territorio una serie di centri urbani. Dall’antica Phoinix, emporio dei fenici, al cui posto oggi sorgono i comuni di Savoca e Santa Teresa, furono prelevate anche sei colonne di granito utilizzate per riedificare la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo.

Esito della convergenza nel tempo diversi stili architettonici, il complesso si presenta oggi in discreto stato di conservazione. Dal profilo esterno, osservando la merlatura del tetto, è chiaro che ebbe un tempo il ruolo di fortezza: la sua particolare posizione permetteva ai monaci, fin dall’epoca normanna, di tenere d’occhio la valle che collegava il mar Tirreno allo Ionio. In base all’Atto di Donazione, scritto in greco nel 1116, che fu tradotto in latino da Agostino Lascaris, il conte Ruggero II D’Altavilla, durante un viaggio da Palermo a Messina, incontrò il monaco Gerasimo dell’ordine dei basiliani. Il frate chiese al sovrano normanno il consenso per edificare la chiesa e coltivare i campi nel territorio, ottenendo la facoltà anche di controllare un intero villaggio, dove oggi sorge il borgo di Forza D’Agrò. In seguito a un violento terremoto che colpì la Sicilia orientale nel 1169 la chiesa venne ristrutturata dall’architetto Gherardo il Franco, come si osserva dall’iscrizione in greco che appare nell’architrave del portale dell’edificio.

Le origini della costruzione risalgono però a epoche più remote. Il nucleo della chiesa è bizantino e può essere datato al 560 d.C. Il motivo a spina di pesce e l’alternanza del bianco e del nero delle pietre laviche dell’Etna nelle decorazioni esterne  sono alcuni degli elementi che si possono riconoscere di questo stile, evidente anche nella croce di tipo bizantino incisa nella porta di ingresso. All’elemento arabo, risalente alla fase di conquista islamica, è da ricondurre la forma caratteristica delle cupole e il disegno ad alveoli che sorregge quella che delle due copre il presbiterio. L’abside, rivolto verso est, assume all’esterno la forma di un torrione rettangolare, mentre ai lati dell’ingresso principale compaiono due torri, caratteristica, questa, delle grandi cattedrali normanne, come quelle di Cefalù e Monreale. All’interno invece la pianta si presenta a tre navate, con volta a crociera nelle navatelle e piana nella copertura centrale. Priva di elementi pittorici conservati, appare spoglia e raffinatamente decorata nella struttura in pietra. Pochi ruderi restano invece di quella che fu un tempo la biblioteca che costituiva parte dell’edifico annesso all’abbazia.

L’insieme di più stili, elemento che richiama la storia dei popoli che hanno colonizzato la Sicilia e la sua ambientazione silenziosa, oltre all’atmosfera sacrale che l’avvolge, fanno della Chiesa di San Pietro e Paolo D’Agrò un gioiello dell’architettura siciliana. Dopo che anche una richiesta ufficiale è stata avanzata per l’inserimento tra i siti UNESCO c’è da sperare che si prosegua nell’operazione di valorizzazione e promozione turistica dell’abbazia e del suo comprensorio. Attualmente la chiesa è accessibile al pubblico ed è possibile visitarla negli orari di apertura.

@FOTO DI Salvatore Cambria

Eulalia Cambria

di Eulalia Cambria

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